
Nel partito ripetono d’avere a cuore i pensionati: ultimamente soprattutto uno. Quello che qualche mese fa ha venduto cara la pelle. «Oggi ho rinnovato la tessera, ma è una cosa normale, d’altronde ce l’ho sempre avuta: forse si aspettavano rancore da parte mia?», gongola Romano. Eppure è bastato che il Professore ripigliasse come sempre il tagliando di partito per farli tutti felici, da Franceschini, a Bersani, a Soru. Non li vedevamo così felici dal giorno, vediamo un po’, ecco sì, esattamente dal giorno della caduta del governo Prodi. All’epoca il professor Belzebù era come lo zio pazzo di cui in famiglia ci si vergogna, nemmeno potevi nominarlo. Dopo la sua caduta, quando impazzavano le consultazioni al Quirinale, nessuno gli chiese il bis. Adesso invece è diventato San Romano martire, pare che ogni suo gesto nasconda una rivelazione mistica, insomma «un grande valore morale e politico», come dice Fassino. Prodi resta nel partito? Un «grande valore morale e politico». Prodi ha ordinato un caffè al bar sotto casa? «Un grande valore morale e politico». Prodi ha comprato un chilo di patate al mercato rionale? «Un grande valore morale e politico».
In questo inspiegabile coro di osanna, Prodi intervistato da Fazio fa le fusa, sdottoreggia sulla crisi economica, racconta il nulla in cento modi diversi, per poi sogghignare: «La mia opera comincia ad essere apprezzata, ora nel Pd serve rinnovamento». La banale obiezione di Paolo Ferrero suona come un ritorno alla ragione: «Ma come, ad elogiare Prodi è proprio quel Pd che lo ha buttato fuori?». Sì, sembrano passati secoli: e invece neanche un anno fa, sotto elezioni, la parola d’ordine era una sola: «reset». Dimentichiamo il governicchio, la coalizione sgarrupata, i franchi tiratori, i senatori a vita, i litigi continui, la spazzatura di Napoli, il caso Alitalia, e via prodeggiando. Lasciamogli fare il nonno, lasciamogli il suo gruppo di lavoro sull’Africa, le sue conferenze, le sue lezioncine, i suoi libri. Erano i tempi dell’oblìo, quando Veltroni si sfilava dalla sua ombra: «Il mio sarà un governo diverso». E Rutelli: «La coalizione di Prodi è un caravanserraglio». E Fassino: «Così non possiamo ripresentarci». L’allora premier allargava le braccia: «E meno male che il Pd doveva nascere per stabilizzare il mio governo; in realtà è nato per destabilizzarlo». Una lunga parabola che lo porterà alle dimissioni dalla presidenza del partito. C’era da capirlo: il buon Romano, l’inventore dell'Ulivo, tradito dalla sua stessa figlianza, con il veltroniano Tonini che rigirava il coltello: «Il Pd va tutelato dall’immagine negativa del governo Prodi». Adesso pare che le parti si siano invertite: quasi quasi, è Prodi che va tutelato dall’immagine negativa del Pd. A questo siamo arrivati. Ad attaccarsi a un governo, il suo, che ha vantato il più basso tasso di fiducia tra i cittadini, meno del 30%. Lui ancora ieri in tv assicurava che «il governo sarebbe potuto andare avanti». Ma dici Prodi e pensi a Pecoraro Scanio, ai no global, ai no Tav, ai no su tutto. Dici Prodi e pensi ai tassisti arrabbiati, ai fischi in pubblico, alla pressione fiscale al 43%. La sua presenza cominciò a diventare scomoda già alle primarie (ottobre 2007) quando il veltroniano Bettini ripeteva: «Non possiamo impiccarci al governo Prodi». Ecco, Prodi era come un cappio che strangola: oggi sembra l’unico modo per tornare a respirare. Ed è tutto dire.
di Federico Novella de Il Giornale
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