"Basta con un clima di odio pericoloso per l'Italia, basta con una conflittualità sistematica che abbandona i cittadini a se stessi e li porta a disaffezionarsi alla loro nazione". Sono le parole - sacrosante - pronunciate ieri dal cardinale Bagnasco all'assemblea generale dei vescovi italiani. Un monito totalmente condivisibile nella forma e nella sostanza, ma è giusto sottolineare che le responsabilità di questa situazione non possono essere salomonicamente divise a metà fra centrosinistra e centrodestra, altrimenti si dà una visione distorta del perché il sistema democratico italiano vive ancora in un clima da Guerra fredda a ormai vent'anni dalla caduta del Muro di Berlino.
La sinistra italiana non ha mai accettato, dopo quella data e dopo i quarant'anni di consociativismo, la presenza di Berlusconi in politica, cioè di colui che ha impedito alla rivoluzione politico-mediatico-giudiziaria di raggiungere l'obiettivo, ossia un ventennio di governo del postcomunismo grazie alla scomparsa di tutti i partiti democratici. Lo schema è quello classico della sinistra leninista, ed entrò in funzione già nel '48: in democrazia il voto popolare non conta, conta soltanto la volontà di una ristretta élite, ossia dell'intellighenzia comunista che ha la facoltà - a differenza del popolo - di discernere il bene e il male e di guidare le masse nella giusta direzione al di là, appunto, della loro stessa espressione di voto.
Negli anni della Guerra Fredda il Pci impose il regime consociativo alla Democrazia Cristiana partendo proprio da questo presupposto, e aggiungendo sul tavolo la minaccia della guerra civile. Quello democristiano fu così un potere effettivamente dimezzato, anche quando per la Dc votava quasi un italiano su due. La presenza del più grande partito comunista d'Occidente, insomma, ci è costata carissima, e ancora ne stiamo pagando le conseguenze. Se noi guardiamo a cosa è accaduto in Italia dopo la caduta del Muro di Berlino e dopo che il Pci ha cambiato tre o quattro volte nome, ci accorgiamo che lo schema è rimasto esattamente lo stesso. La minaccia di guerra civile, infatti, è rimasta, un po' più sottotraccia ma è rimasta: la Guerra fredda, insomma, è finita dappertutto meno che in Italia.
Ancora una volta il voto popolare non conta, contano le minoranze organizzate che si mobilitano per far ravvedere gli italiani narcotizzati dalle televisioni del tiranno Berlusconi. La trama eversiva in questi anni non si è mai fermata: è inutile ripercorrere la storia dal '94 a oggi, basta ricordare che c'è un filo rosso che unisce tutti gli avvenimenti e che vede sempre la sinistra impegnata a sostenere una battaglia contro il Paese.
Siamo dunque al paradosso: il premier più legittimato del mondo dal voto popolare con sette elezioni vinte in un anno e mezzo si trova assediato dai magistrati che ormai lo colpiscono spudoratamente anche nel patrimonio personale, da un'opposizione allo sbando ma pronta a tutto per tornare al potere, dal partitone di Repubblica, dalla Tv di Stato che manda in onda Santoro, e via dicendo. E la prova del nove di dove sta la responsabilità dello sfascismo la si ha proprio in questi giorni: giusto o sbagliato che sia, il governo italiano, convinto di tutelare l'interesse del Paese, sta sostenendo con tutte le forze la candidatura di D'Alema al ruolo di ministro degli Esteri dell'Ue. Cioè del leader politico che aveva preconizzato "scossoni" e che non ha mai mostrato un atteggiamento costruttivo verso il governo. Anche da questo si capisce da che parte stanno davvero gli sfascisti in Italia.
Giustizia/Cossiga: ‘no’ di Fini alla firma non è decisione politica
“La decisione del presidente della Camera di non firmare un eventuale progetto di legge di iniziativa parlamentare in materia di giustizia ed in particolare di abbreviamento dei termini della prescrizione non è politica”. Lo afferma il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga, secondo cui la decisione di Gianfranco Fini “è una doverosa conseguenza della imparzialità che deve assisterlo in ogni suo atto”.
“È infatti una vecchia e consolidata tradizione - spiega il senatore a vita - rimasta però praticamente in vigore solo fino a questa legislatura che i presidenti delle Camere non solo dovrebbero astenersi dal firmare disegni di legge, ma anche dal pronunziarsi fuori dalle loro Aule parlamentari su qualunque aspetto di merito o procedurale relativo a materie che sono, o verosimilmente saranno, oggetto di esame delle Assemblee”.
Giustizia/Schifani: condivisione è imperativo categorico
“Non c'è dubbio che occorre lavorare perchè ci sia condivisione. Io l'ho definito un imperativo categorico”. Il presidente del Senato, Renato Schifani, ha risposto così alla domanda sul confronto aperto per una riforma della giustizia. A margine della prima delle tre giornate di studio a Guglielmo Marconi dalla fondazione Ugo Bordoni, Schifani ha poi risposto sul confronto interno al Pdl e sulle possibilità di dialogo con l'opposizione: “io mi occupo di aspetti istituzionali e non politici, comunque credo sia importante che si avvii un percorso per una legislatura costituente. Sarebbe una occasione mancata se non venisse fatto in questi giorni”.
mercoledì 11 novembre 2009
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