Ha chiesto giustamente che i magistrati indaghino a tutto campo, senza guardare in faccia parenti e amici. Così Antonio Di Pietro ha reagito ieri sera a quella che sembra una dura vendetta della Dea greca Nemesi, che compensava la gioia col dolore.
O se vogliamo prenderla meno alla lontana, possiamo citare Bettino Craxi quando, nel suo famoso discorso in Parlamento nel ’92, disse una frase che fu allora molto contestata, ovviamente dalla sinistra: «Così fan tutti». Ora si scopre che fra quei «tutti» potrebbero finirci anche parenti e collaboratori di quel personaggio che allora mise Craxi, il suo Psi, la Dc, molti imprenditori italiani, insomma tutta la Prima Repubblica, sotto lo schiaffo di Mani pulite. Uno schiaffo sacrosanto, ci mancherebbe altro.
E che però oggi ha un sapore paradossale vista la situazione giudiziaria in cui sono coinvolti il figlio del leader e altre persone che hanno gestito negli ultimi anni il partito di Di Pietro in Campania e in Molise, magari provenendo da altre forze politiche meno, diciamo così, cristalline dal punto di vista dell’etica pubblica. È ovvio, ma bisogna ribadirlo, che siamo solo all’inizio di un’inchiesta, ben lontani anche da una sentenza di primo grado. Ma politicamente parlando, se uno costruisce una carriera, un movimento, una forza politica, un’immagine personale sulla moralità, sulla trasparenza, sulla assoluta estraneità a qualsiasi rapporto con gli affari e gli affaristi, con la corruzione e le tangenti, insomma con tutto quello che ha devastato l’immagine e la credibilità dei nostri dirigenti politici da vent’anni a oggi (ultimo caso, il Pd), allora non può, anzi non deve assolutamente rischiare di scivolare su quel piano inclinato. Altrimenti perde tutto, il consenso, la fiducia e la sua capacità di parlare «pane al pane» alla gente che non ne può più della Casta. Diventa anche lui uno della Casta, invischiato come tutti gli altri in quel meccanismo perverso che ha combattuto da magistrato, ha contrastato da politico e che adesso rischia di divorarlo.
Di Pietro lo sa bene come sa bene che da domani gli sarà più difficile presentarsi in una qualche tribuna televisiva (magari da Santoro in compagnia dei suoi amici Travaglio e Beppe Grillo) e tuonare contro il malaffare della politica. Come farà a convincere i suoi elettori, attuali e potenziali, che lui non è «uno di loro» quando suo figlio e un suo stretto collaboratore vengono indagati? Cosa dirà a quel milione di persone che hanno firmato il referendum contro il Lodo Alfano? Quali spiegazioni darà a quei milioni di cittadini che hanno creduto nel suo antiberlusconismo inteso come lotta contro chi è l’emblema dell’intreccio perverso tra affari e politica? E anche se Di Pietro ne uscisse personalmente pulito, come ovviamente ci auguriamo, la sua immagine subirebbe comunque un colpo. Chi potrebbe più fidarsi di lui nel caso i magistrati appurassero che anche la sua Italia dei Valori (un nome che oggi suona stonato) si è comportata come tutti gli altri? Così fan tutti, appunto.
E la tragedia è proprio questa, al di là di Di Pietro. La sensazione netta che l’opinione pubblica ha ormai maturato è che non ci si può fidare più di nessuno, neanche di quelli che si sono presentati alla ribalta come i grandi moralizzatori. Significa che crescerà ancora il distacco dalla politica, aumenteranno coloro che non voteranno per nessun partito, si moltiplicherà il qualunquismo oggi denominato antipolitica. E la colpa non sarà certo dei cittadini disgustati ma di chi quel disgusto ha provocato, alla faccia dei tanto propagandati valori, questione morale, diversità, gente perbene e via dicendo. Ma se questo sarà il probabile esito, resta la domanda di fondo: è possibile fare politica, a livello nazionale e locale, ossia gestire la cosa pubblica, amministrare il Paese, le Regioni e le città, senza sporcarsi le mani con gli affari? Il che non vuole certo dire senza avere rapporti con costruttori, imprenditori, mediatori e quant’altro. Ma averli senza che, appunto, queste relazioni, assolutamente indispensabili in una società moderna, finiscano in bustarelle, raccomandazioni, favori, carriere personali. Insomma nella corruzione. Al momento, viste anche le vicende che riguardano il Partito democratico di Veltroni e la famiglia politica di Di Pietro, la risposta purtroppo è un secco no.
E che però oggi ha un sapore paradossale vista la situazione giudiziaria in cui sono coinvolti il figlio del leader e altre persone che hanno gestito negli ultimi anni il partito di Di Pietro in Campania e in Molise, magari provenendo da altre forze politiche meno, diciamo così, cristalline dal punto di vista dell’etica pubblica. È ovvio, ma bisogna ribadirlo, che siamo solo all’inizio di un’inchiesta, ben lontani anche da una sentenza di primo grado. Ma politicamente parlando, se uno costruisce una carriera, un movimento, una forza politica, un’immagine personale sulla moralità, sulla trasparenza, sulla assoluta estraneità a qualsiasi rapporto con gli affari e gli affaristi, con la corruzione e le tangenti, insomma con tutto quello che ha devastato l’immagine e la credibilità dei nostri dirigenti politici da vent’anni a oggi (ultimo caso, il Pd), allora non può, anzi non deve assolutamente rischiare di scivolare su quel piano inclinato. Altrimenti perde tutto, il consenso, la fiducia e la sua capacità di parlare «pane al pane» alla gente che non ne può più della Casta. Diventa anche lui uno della Casta, invischiato come tutti gli altri in quel meccanismo perverso che ha combattuto da magistrato, ha contrastato da politico e che adesso rischia di divorarlo.
Di Pietro lo sa bene come sa bene che da domani gli sarà più difficile presentarsi in una qualche tribuna televisiva (magari da Santoro in compagnia dei suoi amici Travaglio e Beppe Grillo) e tuonare contro il malaffare della politica. Come farà a convincere i suoi elettori, attuali e potenziali, che lui non è «uno di loro» quando suo figlio e un suo stretto collaboratore vengono indagati? Cosa dirà a quel milione di persone che hanno firmato il referendum contro il Lodo Alfano? Quali spiegazioni darà a quei milioni di cittadini che hanno creduto nel suo antiberlusconismo inteso come lotta contro chi è l’emblema dell’intreccio perverso tra affari e politica? E anche se Di Pietro ne uscisse personalmente pulito, come ovviamente ci auguriamo, la sua immagine subirebbe comunque un colpo. Chi potrebbe più fidarsi di lui nel caso i magistrati appurassero che anche la sua Italia dei Valori (un nome che oggi suona stonato) si è comportata come tutti gli altri? Così fan tutti, appunto.
E la tragedia è proprio questa, al di là di Di Pietro. La sensazione netta che l’opinione pubblica ha ormai maturato è che non ci si può fidare più di nessuno, neanche di quelli che si sono presentati alla ribalta come i grandi moralizzatori. Significa che crescerà ancora il distacco dalla politica, aumenteranno coloro che non voteranno per nessun partito, si moltiplicherà il qualunquismo oggi denominato antipolitica. E la colpa non sarà certo dei cittadini disgustati ma di chi quel disgusto ha provocato, alla faccia dei tanto propagandati valori, questione morale, diversità, gente perbene e via dicendo. Ma se questo sarà il probabile esito, resta la domanda di fondo: è possibile fare politica, a livello nazionale e locale, ossia gestire la cosa pubblica, amministrare il Paese, le Regioni e le città, senza sporcarsi le mani con gli affari? Il che non vuole certo dire senza avere rapporti con costruttori, imprenditori, mediatori e quant’altro. Ma averli senza che, appunto, queste relazioni, assolutamente indispensabili in una società moderna, finiscano in bustarelle, raccomandazioni, favori, carriere personali. Insomma nella corruzione. Al momento, viste anche le vicende che riguardano il Partito democratico di Veltroni e la famiglia politica di Di Pietro, la risposta purtroppo è un secco no.
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