In un Paese in cui una procura suppone che il capo del Ros dei Carabinieri sia complice della mafia ha un senso parlare di giustizia? La procura che ha già accusato altri collaboratori di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino di avere favorito i mafiosi ed essersene serviti, salvo poi vederli assolvere “perché il fatto non sussiste”. È lo stesso Paese in cui ogni riforma della giustizia passa nel tritatutto dello scontro fra potere legislativo e ordine giudiziario, sicché chiunque ci metta mano finisce sul banco degli accusati o degli appestati, magari con il signor procuratore che va a fare il parlamentare. Ed è lo stesso Paese in cui il Parlamento lavora ad una riforma dell’ordinamento forense, la legge che regola la professione degli avvocati, riuscendo a fare dei passi indietro rispetto alle timide innovazioni introdotte. È il Paese delle corporazioni e delle trame, degli interessi minuscoli che campano all’ombra di guasti maiuscoli. Un Paese culla del diritto, ma con una tendenza impressionante all’infanticidio.
È il Paese in cui guardi il telegiornale e quelli trasmettono l’audio degli interrogatori relativi ad un omicidio, con le indagini ancora in corso. Il presunto omicida racconta come ha strangolato la vittima, come si dibatteva. Fai fatica a crederci, cerchi nei siti dei giornali più autorevoli (si dice così? diciamo quelli che se la tirano per l’essere seri e ponderati) e puoi risentire tutto. Poi leggi che si dovrebbe avere pietà per la vittima. Si dovrebbe avere pietà, semmai, per il processo, per una giustizia degradata a reality show. È il Paese in cui si cominciò pubblicando gli avvisi di garanzia e le accuse ancor prima che il cittadino accusato le conoscesse, anni prima che divenisse imputato, un decennio prima che se ne accertasse l’innocenza, e che ora entra direttamente nella sala dei primi interrogatori, con un disprezzo assoluto di ogni e qualsiasi cosa si voglia chiamare “giustizia”.
Il Paese in cui si discute da 15 anni su come difendere l’autonomia del potere legislativo, dopo che un Parlamento braccato e tremebondo cancellò l’istituto dell’immunità parlamentare, nato dalla cultura democratica e dalla volontà di sbarrare la strada alle dittature. Il tutto senza che si abbia il coraggio di ripristinare quel che i Costituenti vollero. Non sarebbe popolare, dicono. Perché, è popolare continuare a supporre che il capo del governo, liberamente votato dalla maggioranza degli elettori, sia un mafioso, un corruttore, un intrallazzatore e un violentatore di minorenni, senza che le accuse trovino il blocco della difesa istituzionale o lo sbocco delle sentenze? È il Paese in cui la maggioranza politica s’impicca a lodi mal pensati, incalzata da una magistratura che allestisce la forca e insapona la corda, nel mentre l’informazione piazza le telecamere. Un Paese d’incoscienti che danzano assieme agli incompetenti, su un palcoscenico in cui la coreografia giudiziaria è di cartapesta e la giustizia è negata al resto della cittadinanza. Lo stesso da cui i capitali stranieri si tengono alla larga, perché non vai ad investire in un posto dove ci mettono un secolo a giudicare bagatelle come un assegno scoperto. Così diventa il Paese in cui si racconta la storia alla luce delle “rivelazioni” fatte da malacarne criminale o figli di mafiosi che fanno parlare il babbo morto.
La scena politica è occupata da un gran dilemma: se si toglie la reiterabilità i finiani sono pronti a votare il lodo Alfano. E sai che emozione! Se passa il principio che l’istituzione si difende una volta sola, allora facciamo la legge. Così mettono in gazzetta ufficiale l’ennesima pezza già bucata, senza neanche considerarne la ridicola insufficienza rispetto ai guasti profondissimi della giustizia. Lo voglio io lo scudo, in quanto cittadino, e credo consista in una giustizia funzionante, che può anche accusarmi ingiustamente, ma velocemente mi toglie le mani di dosso e non mi devasta la vita. Ma di questo, non frega niente a nessuno. Ed è il disgraziato Paese in cui la cultura e le cattedre sono pronte a firmare appelli se al boia mediatico è sottratta qualche testa, ma non si scandalizzano se le toghe di magistratura mirano solo alla carriera e le toghe d’avvocatura al quattrino, pretendendo le tariffe minime e la propria parcella anche quando le parti mediano fra di loro. Uno spettacolo agghiacciante e sconfortante. Noi, abitanti dell’altro Paese, dell’altra Italia, sappiamo con certezza una cosa: questa compagnia di giro deve sbaraccare. E sparire, se possibile.
Davide Giacalone
28/10/2010
venerdì 29 ottobre 2010
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