Ecco come la Basilicata (non) ha usato i soldi dell'oro nero.
di Gabriella Colarusso
Il giacimento di Tempa Rossa, in Basilicata.
In quei giorni del 1998, si respirava aria di rivoluzione. All'improvviso, i lucani avevano scoperto di avere sotto i piedi il giacimento petrolifero terrestre più grande d'Europa: riserve accertate per circa 450 milioni di barili, un valore stimato in quasi 50 miliardi di dollari nascosti nel sottosuolo della Val d'Agri.«Grosse grasse somme di denaro, sotto forma di royalties, ci avrebbero reso ricchi come arabi e non più bisognosi di sovvenzioni ma, al contrario, pronti a dispensarne», scrive il romanziere lucano Gaetano Cappelli, ripensando a quei giorni: «Non saremmo più emigrati ma, casomai, avremmo aperto le porte della Lucania Saudita ai bisognosi». A 12 anni di distanza, il sogno di una Basilicata capofila dello sviluppo del Meridione è svanito.Pur avendo un Pil pro capite più alto delle vicine Puglia, Campania e Calabria, la regione continua a essere una delle più povere d'Italia. Nei primi tre mesi del 2010, la disoccupazione è salita al 13,8% contro l'11,3% del primo trimestre del 2009 (dati Istat), mentre quella giovanile è al 38,3%. Tra il 2004 e il 2009, dice la Svimez, associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, si è perso circa un occupato industriale su cinque. Nel solo 2009, sono stati bruciati 5400 posti di lavoro e il Pil regionale è calato del 7%, due punti in più rispetto al dato nazionale, secondo Unioncamere.Ma l'aspetto forse più preoccupante del declino lucano è l'emorragia di cervelli: ogni anno, dice la Banca d'Italia, un laureato su cento lascia la regione per andare a lavorare al nord o all'estero. «I giovani se ne vanno perché qui non c'è nulla da fare, è un paese di anziani», commenta Veronica di Matera, 28 anni, da dieci emigrata a Milano in cerca di un futuro da coywriter.Colpa della crisi economica globale, si dirà. Può darsi. Ma anche di una discutibile gestione dei proventi del petrolio. Perché la Basilicata, che da 15 anni è governata dal centrosinistra e da sei da Vito de Filippo del Pd, riconfermato nel 2010 con una valanga di voti (60,8%), dal 2000 al 2009 ha incassato 510 milioni di euro di royalties sul petrolio, una media di 50 milioni all'anno. E altri 65 sono arrivati nel 2010. In tutto 575 milioni di euro: un tesoro in gran parte ancora inutilizzato.
L'opposizione: «Soldi spesi in opere inutili»
Sono le compagnie petrolifere a pagare alla Regione e ai Comuni le royalties sul petrolio (7% degli incassi derivanti dalla vendita dell'oro nero). L'Eni, che estrae greggio dalla val D'Agri dal 1998, ha il 45% delle concessioni di Volturnino (il restante 55% è della Shell) e il 71% di Grumento Nova (29% è Shell). Total, Shell e Exon Mobil operano invece nei pozzi di Tempa Rossa, a nord est della val d'Agri, dove si stima ci siano altri 420 milioni di barili.Lo scorso luglio, Alfonso Ernesto Navazio, ex sindaco di Melfi, oggi consigliere regionale all'opposizione con al lista “Io Amo La Lucania”, ha presentato un'interrogazione al consiglio regionale per sapere quanti dei soldi ricavati dal petrolio siano finiti nelle casse della Regione. «Lo chiedevamo da tempo, finalmente siamo riusciti ad avere dei dati precisi. Ma su come siano stati spesi questi soldi e quali risultati abbiano dato in termini di occupazione e sviluppo c'è poca chiarezza». L'operazione, in effetti, non è delle più semplici. Non esiste un documento unico che spieghi la destinazione dei petroeuro anno per anno.Nino Grasso, portavoce del presidente De Filippo, mette le mani avanti: «Con i soldi del petrolio suppliamo alle carenze dello Stato», dice cercando di far ordine nel groviglio di cifre e resoconti che riguardano l'utilizzo delle royalties. Con 160 milioni di euro, spiega Grasso, «abbiamo ridotto la bolletta del gas ai cittadini, abbiamo sostenuto l'Università, abbiamo costruito infrastrutture».Vediamo: 35 milioni sono stati spesi per il reddito di cittadinanza, soldi destinati alle circa 20 mila famiglie che vivono con meno di 6 mila euro all'anno; 20 per la realizzazione di centri per anziani in piccoli comuni dell'entroterra; 50 di sconto gas per 190 mila famiglie lucane (poco più di 120 euro a famiglia tra 2008 e 2009); 25 sono andati all'Università della Basilicata e al Cnr di Marsico Nuovo e 30 in infrastrutture viarie, nella gran parte dei casi interventi di riparazione di strade comunali e provinciali.Investimenti, questi ultimi, che non sembrano aver dato grossi frutti se, come scrive la Svimez, la rete autostradale lucana è ancora «fortemente deficitaria» e in dieci anni dall'Università sono nati solo quattro spin off, il dato più basso in Italia, superiore, si fa per dire, solo a quello del Molise (tre).«Con i soldi del petrolio sono state finanziate misure assistenziali, che tengono buona la filiera di relazioni strette che il centrosinistra ha costruito in 15 anni di governo regionale, ma che non significano crescita né occupazione», accusa Navazio. «La maggior parte del denaro, soprattutto quello che va a finire ai comuni, viene utilizzato per opere inutili: marciapiedi rifatti tre o quattro volte in un anno, piscine sproporzionate, concerti, sagre, milioni di euro spesi per promuovere il Canestrato di Moliterno e la Mela della val d'Agri, prodotti tipici di un'agricoltura ormai in estinzione», attacca Filippo Massaro del Casail (comitato per lo sviluppo delle aree interne della Lucania).
La Regione: «I fondi rimangono inutilizzati»
Un panorama della Val D'Agri, in Basilicata.
Guardiamo allora al Programma Operativo della val d'Agri (Pov), che assorbe la gran parte dei proventi dell'oro nero (i restanti 350 milioni dei 510 incassati dalla Regione fino al 2009) e che, almeno nelle intenzioni iniziali, avrebbe dovuto moltiplicare i posti di lavoro nella valle petrolifera.Il Pov è un piano di investimenti destinato ai 30 comuni dell'area in cui si volgono le attività estrattive. È stato avviato nel 2003 e ha una dotazione di 350 milioni di euro. Che cosa ha prodotto fino a oggi? La risposta è nel report sullo stato di attuazione del piano, che ogni anno viene stilato dalla Struttura progetto val D'Agri, organo di nomina regionale. L'ultimo rapporto disponibile, riferito al 2009, dice: «Dei 344 milioni di interventi programmati, circa 244 milioni sono stati già impegnati», ma, al dicembre 2009, ne sono stati spesi solo 105. Meno del 30% delle risorse. In sette anni.«Non possiamo certo stappare una bottiglia di spumante», ammette laconico a Lettera43.it Francesco Pesce, da un anno responsabile del Programma. «È un dato insoddisfacente». Ma, dopo qualche minuto di esitazione, Pesce cerca di ammorbidire le sue parole: «È colpa della burocrazia. Perché per fare una strada ci vuole la valutazione di impatto ambientale, poi il Comune deve avviare le pratiche, farle approvare dalla Regione. E se c'è solo un geometra, i tempi si allungano...». Tanto da impiegare sette anni per spendere 105 milioni di euro e lasciarne inutilizzati 239.«Onestamente, siamo partiti in ritardo», dice Pesce. «La discordanza tra finanziato e speso è forte». Solo colpa della burocrazia? Non sarà anche che interventi pensati nel 2003 non corrispondono alle esigenze del territorio di oggi? Prendiamo i bandi per il sostegno alle imprese, che prevedono un cofinanziamento tra Regione e aziende: molti, ammette lo stesso Pesce, non sono stati sfruttati. «C'è paura di investire in un contesto di sviluppo che è zero. La Regione finanzia dei progetti ma poi sono gli stessi imprenditori a non avere i soldi per la parte che compete loro».Succede così che dei 118 milioni di petroeuro programmati per il sostegno alle attività produttive della val d'Agri (agricoltura, industria, formazione, turismo) fino a dicembre 2009 ne siano stati spesi solo 39. Ed è la stessa Regione a scrivere che «le risorse spese […] alla fine saranno di gran lunga inferiori a quelle programmate a causa delle numerose revoche o rinunce sopraggiunte».Le imprese delle val d'Agri, soprattutto quelle agricole, chiudono o versano in condizione di mera sopravvivenza, e i fondi restano inutilizzati. I dati della camera di Commercio, d'altra parte, parlano chiaro: in cinque anni, dal 2008 al 2009, il numero di imprese registrate in val d'Agri è diminuito del 13%, tra il 2008 e il 2009 del 12%.«Il sostegno all'agricoltura è stato forte ma neanche in questo settore c'è stata una risposta soddisfacente. Da quando sono stati fatti i bandi fino a oggi», spiega Pesce, «molte aziende agricole, che da noi sono piccole aziende, con un reddito di meno di 5000 euro al mese, hanno chiuso o non hanno i soldi per il co-finanziamento. Per questo, gli incentivi sono stati revocati».Anche i soldi per la formazione restano fermi in cassa. Su 1.106.758 euro di contributi destinati alle imprese manifatturiere, sono stati spesi solo 101.584 euro. «Un dato assurdo. I tempi di spesa sono troppo lunghi», commenta il responsabile del Pov. Stessa storia per i bandi del pacchetto turismo, ideati nel 2006 per «migliorare l'offerta ricettiva», creare «nuove strutture per il tempo libero», rivitalizzare i centri storici: 10,8 milioni di euro finanziati, poco più di 4 spesi.«Da quest'anno, però, la spesa è notevolmente aumentata e dal prossimo anno faremo ancora meglio», assicura Pesce. D'altra parte, aggiunge, il «rilancio della valle non era stato pensato tanto per aumentare la produzione industriale, ma per migliorare la qualità della vita e su questo abbiamo fatto molto».
I sindacati: «Sviluppo grazie ai petroeuro? Resta una promessa»
Sarà, ma la promessa di trasformare la Basilicata in una Lucania Saudita grazie ai soldi del petrolio, che avrebbero rilanciato l'industria e creato migliaia di posti di lavoro, resta un ricordo.L'ultimo dato sull'occupazione in val d'Agri, fornito dalla Regione, risale al 2008 e parla di «200 o 300 nuovi occupati». Le tanto pubblicizzate ricadute occupazionali dell'indotto petrolifero, dice Mario Fulco, coordinatore della camera di lavoro della Val D'Agri, sono poca cosa: «Un'indagine della Fiom Cgil Basilicata e della Filcem Cgil Potenza, del gennaio 2009, stima un'occupazione giornaliera di 600 addetti. La metà di origine lucana. Niente rispetto a quello che la Regione Basilicata aveva scritto nel programma operativo 2000-2006, ovvero una stima di circa mille addetti».Inoltre, le aziende coinvolte nell'indotto sono prevalentemente del centro nord: «Soprattutto lombarde e abruzzesi», racconta Fulco, «perché quello è il tradizionale indotto industriale dell'Eni e perché in quelle regioni hanno anche sede le aziende che offrono i servizi a maggior valore aggiunto».In altre parole, denunciano i sindacati, la promessa di creare in val D'Agri un indotto industriale d'eccellenza, ad alto contenuto tecnologico, con imprese in grado di lavorare anche senza il petrolio, per esempio nel settore delle energie rinnovabili, è stata disattesa. «In Basilicata il più grande datore di lavoro», ironizza Navazio, «resta l'Inps».
Sabato, 30 Ottobre 2010
giovedì 12 maggio 2011
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1 commento:
Si potrebbe dire un articolo formato fotografia. Peccato che sia una pessima fotografia per la sinistra, alla quale bisognerebbe ricordare, quando,non perdevano nessuna occasione per dire, che le amministarziuoni rette dalla sinistra erano esempi di efficienza e correttezza. Oggi la forza dei numeri ed il loro contenuto, contro le parole vuote di allora. Io stamperei l'articolo e ne farei volantinaggio. L'anima critica.
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